Terrore psicologico sul posto di lavoro: 50 sfumature di mobbing

Terrore psicologico sul posto di lavoro: 50 sfumature di mobbing

Parole che si trasformano in offese, umiliazioni, molestie e vessazioni… questa è l’amara sintesi del mobbing, un fenomeno fatto di violenza psicologica che, latente e silenziosa, devasta la vittima cagionandole ferite interiori invisibili eppur devastanti.

Gli studi sul fenomeno hanno rilevato una preoccupante somiglianza tra l’aggressività riscontrabile negli animali – volta ad isolare il componente ritenuto “diverso” dal branco – e quella manifestata nel mobbing diretta all’emarginazione del collega, vittima di turno.

Venendo all’analisi meramente etimologica è bene considerare che il termine mobbing scaturisce dalla locuzione anglosassone to mob – testualmenteassalire” – che, a sua volta, trae origine dal latino mobile vulgus che descrive, in senso dispregiativo, la plebaglia nell’atto di scagliarsi contro qualcuno.

Il termine mobbing, infatti, indica un multiforme fenomeno, costituito da atti persecutori, reiterati ed atipici, che si realizzano sul luogo di lavoro a danno del mobbizzato.

I soggetti coinvolti, in dette dinamiche, sono in primis, la vittima o le vittime mobbizzate, gli aggressori – cosiddetti mobbers – e gli spettatori inermi, ovverossia tutti i dipendenti che, pur non realizzando direttamente le condotte mobbizzanti, ne sono a conoscenza ma codardamente scelgono di restare testimoni silenziosi.

Esistono poi varie tipologie di mobbing, a seconda dei soggetti che lo realizzano: il mobbing verticale, detto anche bossing, realizzato da un superiore gerarchico in danno ad uno o più sottoposti; il mobbing “pianificato” frutto cioè di una precisa strategia aziendale; il mobbing “orizzontale” che si verifica tra soggetti di pari grado ed “ascendente” attuato cioè da un gruppo compatto di sottoposti contro il superiore gerarchico.

Esiste poi un’ulteriore forma di mobbing – detta “di ritorno” – che coinvolge la famiglia della vittima. Il mobbizzato, infatti, a seguito delle vessazioni subite sul posto di lavoro manifesta la propria inquietudine all’interno del nucleo familiare che, investito della frustrazione manifestata costantemente dalla vittima, tenderà paradossalmente, ad isolarla amplificando gli effetti del mobbing.

Nell’ordinamento Italiano il fenomeno non è stato ancora puntualmente normato pertanto, la giurisprudenza, ha provveduto a ricondurre la fattispecie nell’alveo dell’art. 2087 del codice Civile rubricato “tutela delle condizioni di lavoro” che, prevedendo una responsabilità contrattuale del datore di lavoro, testualmente dispone: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure … necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“.

Appare opportuno rilevare che, la tutela contro il mobbing, non si esaurisce nella previsione civilistica di cui all’art. 2087 ma si rinviene anche nelle norme Costituzionali, in particolare nelle disposizioni di cui agli artt. 2, 4, 13, 32, 35, 37 e 41 Cost.

Venendo alla disamina dei danni da “mobbing– che dovranno necessariamente essere provati dal dipendente – si annoverano il danno patrimoniale, il danno biologico, danno esistenziale e il danno morale.

Il mobbing, come sopra evidenziato, può comportare tra le tante lesioni, anche quella patrimoniale che verrà quantificata e risarcita nella forma del danno emergente e del lucro cessante. Invero il riconoscimento del solo danno economico non risulterebbe idoneo a tutelare efficacemente la vittima posto che, non sempre, il mobbing produce dei danni quantificabili economicamente.

Il mobbing, infatti, può pregiudicare anche la sfera morale della vittima, causando sofferenze e turbe interiori – ex art. 2059 codice Civile – difficili da provare e quantificare, a differenza del cosiddetto danno biologico, inteso quale lesione all’integrità psicofisica che è, per sua stessa definizione, suscettibile di una valutazione medico legale.

Il danno esistenziale, inteso quale lesione alla vita di relazione con conseguenze in tutti gli ambiti afferenti la vita di relazione della vittima, si differenzia dal danno patrimoniale giacché areddituale, dal danno biologico in quanto sussiste sebbene in assenza di lesioni concrete valutabili mediante accertamento medico-legale e dal danno morale poiché non si concretizza in uno stato di disagio interiore bensì una condizione esteriore che involge la realizzazione della persona nella società ed i suoi rapporti peggiorando notevolmente, la qualità della vita del mobbizzato.

La giurisprudenza civile ha riconosciuto la sussistenza del mobbing in varie fattispecie di cui, a titolo esemplificativo, si annoverano: situazioni di emarginazione, demansionamento (v., T.A.R. Roma, Sez. II, 2 marzo 2015, n. 3421; Cassazione Civile, sez. lavoro, n. 22635 del 05 novembre 2015), dequalificazione ed inattività forzata – terrorismo psicologico – (v. tra tutte, Cass. n. 158, 8 gennaio 2016); atti sistematici formalmente legittimi ma supportati da intenti lesivi; Continue sanzioni disciplinari illegittime (Cass., ordinanza n. 23041 del 2017) e finanche il licenziamento.

Qualora, differentemente, le condotte perpetrate dagli aggressori non risultino riconducibili nell’alveo della categoria ontologica del mobbing, potrebbero rientrare bella forma “attenuata” del mobbing, denominata straining.

La locuzione straining deriva dal verbo inglese to strain, in italiano stringere e, a differenza del mobbing, è configurabile anche in presenza di un’unica azione e/o omissione sempre che, la stessa, provochi nella vittima, la percezione di essere in uno stato di persistente inferiorità rispetto agli aggressori.

Pertanto, pur in difetto del requisito della continuità nel tempo, la condotta può essere sanzionata in virtù degli artt. 2087 c. c. e 28 D.Lgs.9 aprile 2008, n. 81, dando luogo, eventualmente, anche a comportamenti penalmente rilevanti (così, Cass. Pen. n. 28603 del 3 luglio 2013,).

Il datore di lavoro, pertanto risulta responsabile dei comportamenti mobbizzanti sia se scaturiti da azioni e/o omissioni da egli stesso perpetrate che per le condotte poste in essere dai suoi dipendenti.

In ogni caso sarà necessario, per il lavoratore-vittima, provare il nesso causale tra la condotta datoriale – attiva ovvero omissiva – ed il danno.

Qualora sia appurata la sussistenza del danno e il predetto nesso causale il mobbizzato avrà diritto al risarcimento del danno.

IL datore di lavoro, di contro, dovrà provare di aver adempiuto al proprio onere di tutelare l’integrità psico-fisica dei dipendenti.

Per intraprendere l’azione, diretta alla richiesta del risarcimento del danno – in qual si prescrive nell’ordinario termine decennale, decorrenti non dall’inizio delle vessazioni bensì dalla manifestazione del danno (v., Cass. n. 16148 del 20 luglio 2007).

Avv. Francesca Albiniano (collaboratrice Studio Legale Verde)